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La valutazione dei rischi a favore dei volontari

Sugli obblighi dell’applicazione del TU 81/08 e in particolare della redazione della valutazione dei rischi a favore dei volontari, si è espressa il 13 marzo la Commissione interpelli del Ministero del Lavoro.
Si è trattato di indicare quali sono le disposizioni del TU alle quali devono sottostare le associazioni senza personale dipendente ma che, per raggiungere le proprie finalità, si avvalgono dell’aiuto di unità operative volontarie che non ne chiedono alcun compenso.
La Commissione ritiene che, in generale per le associazioni di volontariato il regime applicabile sia quello previsto per i lavoratori autonomi*, per i quali l’art. 3, c.11 del TU 81/08 dispone l’applicazione dell’art. 21.
La Commissione ha richiamato l’art. 2, c. 1 lett. a) del TU, per il quale è “lavoratore” la “persona che, indipendentemente dalla topologie contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell‘organizzazione di un datore dî lavoro pubblico o privato con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere un ‘arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari“.
Per l’art. 3, c. 12-bis, inoltre, le disposizioni di cui all’art. 21 si applicano “nei confronti: 
  • dei volontari di cui alla L. 266/1991;
  • dei volontari che effettuano servizio civile
  • dei soggetti che prestano la proprio attività… in favore delle associazioni di promozione sociale di cui alla L. 383/2000 e delle associazioni sportive dilettantistiche… non aventi scopo di lucro, affiliate alle federazioni sportive nazionali o agli enti nazionali di promozione sportiva riconosciuti ai sensi delle leggi vigenti…. e alle associazioni sportive dilettantistiche costituite in società di capitali senza fine di lucro… e nei confronti di tutti i soggetti di cui all’art. 67, c.1, lett. m), del Dpr 917/1986.
A favore di questi soggetti i datori di lavoro sono tenuti a fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali sono chiamati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla loro attività. Inoltre, devono adottare le “misure utili ad eliminare e/o a ridurre al minimo i rischi da interferenze tra la prestazione del soggetto e altre attività che si svolgano nell’ambito della medesima organizzazione”. 
Così chiude la Commissione: “restano fermi i principi generali di diritto che impongono al responsabile dell’impianto o dell’associazione sportiva dilettantistica che di esso abbia la disponibilità… di predisporre adeguate misure di tutela nei confronti di chi venga chiamato ad operare nell’ambito delle attività di riferimento dell’associazione sportiva dilettantistica e che, pertanto, ne sanciscono la responsabilità secondo i principi comuni civili e penali nel caso di danni causati a terzi da cose in disponibilità”.

Sentenza Cassazione sul comportamento del Coordinatore della sicurezza

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione
 
Il Tribunale ha condannato alla pena stimata di giustizia, nonché al risarcimento del danno e al pagamento di provvisionali, il legale rappresentante di una società, committente e responsabile di alcuni lavori edili, nonché il coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione per avere causato, per colpa, la morte di un operaio dipendente dell’impresa esecutrice gestita dalla società deceduto per le conseguenze subite a causa di una caduta dall'alto. La Corte d'Appello, esprimendosi sull'impugnazione di entrambi gli imputati, ha assolto il coordinatore per la sicurezza per non avere commesso il fatto, revocando nei suoi confronti le statuizioni civili, mentre ha confermata la penale e civile responsabilità del committente. Quest’ultimo ha ricorso in cassazione lamentando il trattamento diverso riservatogli rispetto al coordinatore nonostante che le ragioni che avevano imposto l'assoluzione del coordinatore avrebbero dovuto estendersi anche alla sua posizione. Lo stesso committente ha fatto notare, infatti, che il coordinatore per la sicurezza era stato assolto perché era stato accertato documentalmente che l’esecutore dei lavori, facendo in merito una comunicazione sia a lui che al coordinatore, si era formalmente impegnato per iscritto a custodire il cantiere sotto la sua esclusiva responsabilità fino alla messa in sicurezza del cantiere stesso, tenendo comunque sospesi i lavori, per cui tale adempimento avrebbe dovuto portare anche alla sua assoluzione. Il committente ha fatto notare altresì che la Corte territoriale nell’assumere la propria decisione non aveva espressa alcuna motivazione.
 
Le decisioni della Corte di Cassazione.
 
Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione che non ha condiviso le decisioni assunte dalla Corte di Appello la quale aveva ritenuto sufficiente che il coordinatore, perché fosse esonerato dalle sue responsabilità, avesse più volte chiesto all’impresa ed al committente di sospendere i lavori e di chiudere il cantiere. “Nel caso in cui il coordinatore per la sicurezza”, ha quindi sostenuto la Corte suprema, “constati l'obiettiva necessità di sospendere i lavori e ciò non ottenga, per esonerarsi da responsabilità non ha strada diversa da quella di dimettersi dall'incarico, il cui mantenimento risulterebbe del tutto incompatibile con una situazione fattuale, a lui ben presente, che ponga a rischio l'incolumità dei lavoratori addetti al cantiere”.
 
A definitivo rafforzamento del convincimento di non colpevolezza del coordinatore i Giudici della Corte territoriale avevano messo in evidenza che lo stesso, in fase d'appello, aveva esibita documentazione attestante la custodia esclusiva del cantiere da parte dell’impresa che si era impegnata altresì a non proseguire i lavori fino a quando non avesse esibito tutta la documentazione necessaria ad attestare la messa in sicurezza del cantiere medesimo per cui avevano ritenuto verosimile che i lavori fossero proseguiti all'insaputa del coordinatore per la sicurezza. Se l’appaltatore si era affermato custode esclusivo del cantiere obbligandosi a mantenerne sospesa ogni attività almeno in attesa della piena messa in sicurezza dello stesso, ha quindi sostenuto la Sez. IV,  restavano da chiarire le ragioni per le quali il rappresentante legale dell'impresa committente doveva essere considerato colpevole di essere venuto meno ai propri doveri di garante a differenza del coordinatore per la sicurezza, chiarimenti che secondo la Sez. IV la Corte territoriale non aveva comunque fornito nell’esprimere le motivazioni nella propria sentenza.
 
Alla luce di quanto sopra detto quindi nonché a causa della carenza motivazionale che aveva reso palesemente illogica e contraddittoria l'affermazione di colpevolezza espressa nei confronti del committente, la Corte di Cassazione ha pertanto annullata la sentenza impugnata emanata dalla Corte di Appello disponendo il rinvio degli atti alla stessa per una nuova valutazione sul punto.

Utenti al riparo dalle telefonate "mute" Varate le regole contro il telemarketing più invasivo


Utenti telefonici più tutelati contro le "telefonate mute", un fenomeno particolarmente fastidioso causato da un'attività di promozione telefonica poco rispettosa della tranquillità degli utenti.
A conclusione della consultazione pubblica avviata lo scorso anno sulle misure da adottare per ridurre drasticamente questo fenomeno, il Garante privacy ha varato in via definitiva il provvedimento generale che impone agli operatori di telemarketing di adottare specifiche misure per ridurre drasticamente questo tipo di disturbo.
Sono stati numerosi gli abbonati che hanno segnalato al Garante la ricezione di telefonate nelle quali, una volta risposto, non si viene messi in contatto con alcun interlocutore. Una pratica che, in alcuni casi, ha comportato il disturbo degli utenti anche  per 10-15 volte di seguito e che viene spesso vissuta dagli utenti addirittura come una forma di stalking, fino a configurarsi come un vero e proprio allarme sociale.
Come messo in luce dalle verifiche effettuate dall'Autorità, il problema deriva dalle impostazioni dei sistemi centralizzati di chiamata dei call center, rivolte a massimizzare la produttività degli operatori. Per eliminare tempi morti tra una telefonata e l'altra, infatti, il sistema genera in automatico un numero di chiamate superiore agli operatori disponibili. Queste chiamate, una volta ottenuta risposta, possono essere mantenute in attesa silenziosa finché non si libera un operatore. Il risultato è appunto una "chiamata muta", che può indurre comprensibili stati di ansia, paura e disagio nei destinatari.
Ecco dunque le regole fissate dal Garante per eliminare gli effetti distorsivi di questa pratica commerciale, senza penalizzare l'efficienza delle imprese di telemarketing:
1) i call center dovranno tenere precisa traccia delle "chiamate mute", che dovranno comunque essere interrotte trascorsi 3 secondi dalla risposta dell'utente;
2) non potranno verificarsi più di 3 telefonate "mute" ogni 100 andate "a buon fine". Tale rapporto dovrà essere rispettato nell'ambito di ogni singola campagna di telemarketing;
3) l'utente non potrà più essere messo in attesa silenziosa, ma il sistema dovrà generare una sorta di rumore ambientale, il cosiddetto "comfort noise" (ad es. con voci di sottofondo, squilli di telefono, brusio), per dare la sensazione che la chiamata provenga da un call center e non da un eventuale molestatore;
4) l'utente disturbato da una chiamata muta non potrà essere ricontattato per 5 giorni e, al contatto successivo, dovrà essere garantita la presenza di un operatore;
5) i call center saranno tenuti a conservare per almeno due anni i report statistici delle telefonate "mute" effettuate per ciascuna campagna, così da consentire eventuali controlli.
Gli operatori di telemarketing hanno sei mesi di tempo per mettersi in regola e adottare le misure prescritte dall'Autorità.

Chiarimenti sulla "collaborazione" del medico competente

La Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri ha chiesto alla Commissione interpelli del Ministero del lavoro di conoscere la corretta interpretazione dell’art. 25 (Medico competente), c. 1, del TU 81/2008.
L’interesse è rivolto al valore del termine “collabora” che appare nel testo di legge. Nel quale – lett. a) del c.1 – si legge che: “il medico competente collabora con il datore di lavoro e con îl servizio di prevenzione e protezione:
  • alla valutazione dei rischi anche ai fini delta programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria;
  • alla predisposizione della attuazione delle misure per la tutela dalla salute e della integrità psico-fsica dei lavoratori;
  • all’attivîtà dî formazione e informazione nei confronti de! lavoratori, per la parte di competenza;
  • alla organizzazione del servizio di primo soccorso”..
Per la successiva lettera m) il medico competente partecipi a) alla programmazione e b) al controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini delta valutazione del rischîo e della sorveglianza sanitaria.
“Collaborazione e partecipazione” che, secondo la Commissione, attribuiscono al medico competente un ruolo di maggiore rilevanza nel sistema di organizzazione della prevenzione aziendale, sicuramente più ampio rispetto a quello assegnato dall’ art. 17 del DLs 626/1994. Il quale “limitava” l’operato del MC “alla predisposizîone dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori…sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione dell’azienda ovvero dell’unità produttiva e delle situazioni di rischio…”.
L’ampliamento, con l’art. 25 del TU 81/08, estende la competenza , come detto sopra , anche alla programmazione… alla sorveglianza sanitaria, e all’attività di formazione e servizio di primo soccorso. Inoltre, l’art. 35 c. del DLgs n. 106/2009* ha introdotto la sanzione penale per la violazione degli obblighi di collaborazione alla valutazione dei rischi.
A corredo dell’interpretazione fornita nell’interpello, la Commissione rinvia alla sentenza della Cassazione n. 1856 del 15/01/2013, nella quale viene sottolineato che al medico competente “non è affatto richiesto l’adempimento di un obbligo altrui quanto, piuttosto, lo svolgimento del proprio obbligo di collaborazione, espletabile anche mediante l’esauriente sottoposizione al datore di lavoro dei rilievi e delle proposte in materia di valutazione dei rischi che coinvolgono le sue competenze professionalî in materia sanitaria…”.
Il tutto fa concludere che l’obbligo di collaborazione del medico competente “vada inteso in maniera attiva” anche nella valutazione dei rischi aziendali tenuto conto che lo stesso, prima di redigere il protocollo sanitario, deve avere una conoscenza dei rischi presenti… acquisita sulla base dalle informazioni ricevute dal datore di lavoro ma anche attraverso l’espletamento dei propri obblighi sanciti dall’art. 25 dello stesso TU e cioè:
a) visita degli ambienti di lavoro, durante la quale il MC interagisce con il datore di lavoro, il Rspp, il Rls e dialoga con i lavoratori;
b) sorveglianza sanitaria (elementi di conoscenza contenuti nella cartella sanitaria).

La documentazione che il committente può chiedere all’appaltatore

Una richiesta di chiarimenti in merito ai documenti che l’impresa appaltatrice è obbligata a consegnare al committente ha formato oggetto di un interpello da parte del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
In particolare si voleva sapere se, a norma dell’art. 26 del TU 81/08, l’impresa sia tenuta a consegnare:
  • la copia del modello Lav;
  • il consenso all’utilizzo dei dati sottoscritto da ogni lavoratore;
  • la copia del Duvri della ditta appaltatrice;
  • la dichiarazione che i dipendenti dell’impresa sono in possesso del certificato di idoneità fisica;
  • l’autocertificazione di idoneità tecnico professionale.
La risposta della Commissione interpelli.
Per il rispetto degli adempimenti previsti dal c. 1 dell’art. 26*, sono sufficienti:
  1. l’acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;
  2. l’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi in ordine al possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale.
E il Duvri? Il committente non lo può richiedere alla ditta appaltatrice, “dal momento che la redazione del documento è un obbligo – nei casi previsti – del committente”. Questi può, però, chiedere i documenti e le informazioni necessarie all’elaborazione del Duvri**.
* Il datore di lavoro committente, in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture deve verificare (con le modalità previste dall’art. 6, c. 8, lett. g) ma, al momento, non ancora individuate), “… l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici (o dei lavoratori autonomi) in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione”.
** Se non ricorrono le condizioni per l’elaborazione del Duvri, si deve fare riferimento a quanto contenuto nel c. 2 dell’art. 26 (“…i datori di lavoro, ivi compresi i subappaltatori: a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva”).
 

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Da Italia Oggi del 6.10.23: Educazione civica in sicurezza

 

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